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L’ora d’oro è un progetto che racconta la cultura di FOPE da nuovi punti d’osservazione. Inventore del sistema brevettato Flex’it, che rende i gioielli flessibili grazie alle microscopiche molle in oro 18 carati inserite nella trama, FOPE ha fatto della flessibilità il suo punto di forza. Una caratteristica tecnica che è diventata il tratto distintivo di una personalità aperta a mondi affini come la moda, il design, la musica, l’arte e la scrittura.

Il primo contributo, dedicato alla moda, è di Andrea Batilla, brand consultant, autore e divulgatore dall’approccio storico-critico. Il testo che segue è una sintesi del suo intervento al salotto letterario di Isola Bella, che si è svolto il 25 giugno 2025. Batilla si è concentrato sul tema dell’heritage, indicando le strade percorribili per i brand che vogliano essere rilevanti nella contemporaneità, senza venire meno alle proprie radici.

La moda ci offre spesso la possibilità di riflettere sulla cultura e sul nostro tempo. Nel mio lavoro critico ho imparato a usare strumenti di interpretazione che vengono da settori diversi, mescolando l’approccio storico con la sociologia, l’antropologia, la psicologia, ma anche con la filosofia e la semiotica. Osservare la moda in questo modo significa uscire dal teorema del mi piace/non mi piace per sviluppare ragionamenti più profondi.

 

Quando parliamo di heritage brand intendiamo quei marchi che fondano la propria identità su una lunga storia e su valori consolidati nel tempo. In Italia non ce ne sono molti nell’ambito della moda, perché il nostro Paese ha una tradizione molto recente in questo campo. Pochissimi brand sono nati prima degli anni Sessanta, e anche quelli più antichi hanno conosciuto il successo negli anni del boom. Molti però esistono ancora, ed è interessante analizzare come hanno continuato e continuano a farlo.

Solo così l’eredità può essere usata in modo aperto, dinamico, e perfino disruptive.

Il primo scenario è quello della conservazione, che di solito si verifica quando i fondatori, o i loro eredi, sono ancora attivi in azienda. Una presenza fondamentale sul versante della coerenza, che talvolta rallenta l’innovazione. In Italia questo atteggiamento è piuttosto comune. Nella moda e non, tendiamo ad avere un approccio museale e conservativo: davanti a un bel palazzo antico facciamo magari un piccolo intervento di ristrutturazione, ma in generale pensiamo che sia meglio non toccarlo, lasciarlo così com’è. La stessa cosa accade in alcune aziende, che una volta individuate delle icone procedono senza inventare nuovi codici e linguaggi, forti solo della propria storia. Storia che di fatto resta chiusa in un cassetto, perché ci si dimentica che la memoria non è qualcosa di solido, ma cambia continuamente. È un territorio immenso, che include tante cose diverse, ed è necessario conoscerle per decidere cosa usare e cosa no, cosa è interessante dal punto di vista simbolico e cosa no.

 

Da qui, il secondo scenario, che dà anche il nome al mio intervento: la distruzione. Immaginiamo il brand come una perfetta sfera di marmo: se cominciamo a colpirla con uno scalpello, si aprirà in due, poi in quattro, poi in mille pezzi. Ma è quando il marchio è in frantumi che siamo capaci di guardarci dentro, di prendere i singoli pezzi e risignificarli. Certo, la sfera di marmo non c’è più, ma abbiamo moltissime nuove pietre straordinarie, da usare in tanti modi diversi. Io credo che dei brand, dopo averli conosciuti, non si debba avere nessuna pietà. I marchi possono, e forse devono, essere calpestati, anche se naturalmente resta fondamentale tenerli legati alla propria storia. Solo così l’eredità può essere usata in modo aperto, dinamico, e perfino disruptive.

Se penso a FOPE, per esempio, vedo nella maglia elastica qualcosa che viene dal passato del brand, ma dialoga molto bene con la contemporaneità. Il fatto che la collana sia così semplice da indossare è un gesto che rivoluziona l’immaginario tradizionale – penso alla classica coppia davanti allo specchio del boudoir, lui che aiuta lei a chiudere la collana. Lei oggi la collana, o il bracciale o l’anello, se li compra e li indossa da sola. E forse anche lui, perché il gioiello maschile è altrettanto interessante.

 

In conclusione, penso che lavorare con gli heritage brand richieda una profonda conoscenza della loro storia. Solo partendo da lì si può valorizzare il loro patrimonio simbolico e restituirgli senso nella contemporaneità.